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La cicala di Belgrado
la giornalista Marina Lalović ci svela l’anima di Belgrado più profonda e inedita con gli occhi di chi ha lasciato la propria città e la guarda con lucidità e malinconia, con razionalità e affetto allo stesso tempo.
Da oggi in libreria “La cicala di Belgrado” di Marina Lalović, una nuova edizione arricchita con la prefazione di Giorgio Zanchini e la postfazione di Gigi Riva. “La cicala di Belgrado” di Marina Lalović è un viaggio tra i luoghi della capitale serba poco prima della dissoluzione dell’ex Jugoslavia, quel mondo retto su «un equilibrio quasi perfetto e allo stesso tempo fragilissimo» che «abbiamo iniziato ad apprezzare soltanto quando era finito». Dai palazzotti enormi e solitari di Novi Beograd, quartiere simbolo dell’unità e della fratellanza, allo Studentski Kulturni Centar, il centro studentesco di cultura dove i gruppi emergenti facevano i loro esordi, divenuto negli anni Novanta il centro dell’economia nera.
Giorgio Zanchini, giornalista e conduttore televisivo della trasmissione Quantestorie, definisce “La cicala di Belgrado” «un memoir, un romanzo di formazione, una guida di Belgrado, un’analisi geopolitica. Con una prosa elettrica, uno sguardo curiosissimo e una voracità di esperienze che fanno onore alla giovinezza, Marina Lalović riesce a condensare un pezzo significativo di storia europea, e a incrociare vite e luoghi ed eventi della cosiddetta Jugosfera degli ultimi decenni, aggiungendo così un tassello prezioso alla galleria di opere e autori balcanici che Bottega Errante ha costruito negli anni».
Come scrive il giornalista e scrittore Gigi Riva, ne “La cicala di Belgrado“ Marina Lalović racconta Belgrado per meglio comprenderla e «ci accompagna per mano alla scoperta dei suoi perché. Ci squaderna il suo panorama come un depliant che non è turismo ma è un luogo dell’anima prima ancora che del cuore. Accanto agli spazi votati al progresso, descrive con passione ciò che resta del passato, il sapore forte del cibo delle kafane, la musica della memoria, la semplicità arcaica e balcanica nel concepire la vita. E noi, immersi nella complessa postmodernità, siamo indotti a rimpiangere qualcosa che è andato perduto nella frenesia delle prestazioni ad ogni costo. Un certo senso dello scorrere lento del tempo, una certa idea dell’importanza del contatto fisico, delle relazioni da strada e da bar. Fino a chiederci se le nostre alienanti corse a perdifiato non ci abbiamo fatto perdere il significato dell’esistenza. Il valore di beni preziosi come, di tanto in tanto, il piacere dell’ozio».
Buona lettura!
I quartieri più veri, quelli dove frequentare le kafane (osterie) dove perdere intere giornate a parlare di politica e fratellanza, il Danubio e la Sava, le vene d’acqua che attraversano Belgrado e la trasformano in una città di mare anche se il mare non c’è. Un viaggio a piedi e in bicicletta con la sua amica d’infanzia è lo spunto per riscoprire la propria città, lasciata nel 2000, poco prima della caduta di Milošević. La musica, il cibo, le piazze, le vie che attraversano la capitale, i bombardamenti NATO, gli anni Novanta, i personaggi incrociati e conosciuti: Lalović ci svela l’anima di Belgrado più profonda e inedita con gli occhi di chi ha lasciato la propria città e la guarda con lucidità e malinconia, con razionalità e affetto allo stesso tempo.
Belgrado - Roma 2000
«A Roma Fiumicino esci dalla porta scorrevole del Terminal 3. Vai a destra. Sali le scale mobili. Attraversa la strada. Lì di solito c’è parcheggiato il Sulga Perugia, l’autobus che ti porta diretto in piazza Partigiani» mi spiega Ines, un’amica che ha vissuto qualche anno a Perugia e che mi descrive nei minimi dettagli il percorso per arrivare al portone della casa dove dovrei stare.
Ho preparato un fascicolo con i documenti che ho raccolto nei mesi. Ci sono circa ottanta pagine, varie attestazioni che dimostrano che vado in Italia per studiare e che non ho intenzione di restarci per sempre. Mi sono persino trovata a fotocopiare delle banconote per dimostrare che ho il minimo indispensabile per vivere. Un’azione del tutto illegale ma all’epoca la necessità accecava ogni percezione dell’assurdità. Una delle domande che ti rivolgevano all’ambasciata era se avevi qualche collegamento con la famiglia Milošević. E se sfortunatamente portavi questo cognome (diffusissimo in Serbia) le probabilità di prendere il visto erano minime. Si doveva conoscere anche un po’ di italiano per potersi orientare nel paese di arrivo. Come se si viaggiasse solo nei paesi di cui si conoscono le lingue. Sarebbe una bella impresa!
Con una prosa elettrica, uno sguardo curiosissimo e una voracità di esperienze che fanno onore a quella che pensiamo l’essenzastessa della giovinezza, Marina Lalović riesce a condensare un pezzo significativo di storia europea, e a incrociare vite e luoghi ed eventi della cosiddetta Jugosfera degli ultimi decenni. dalla prefazione di Giorgio Zanchini
«I soldi, Marince, non li mettere tutti nel portafogli! Te li levano alla dogana! Gli ungheresi alla dogana sono i peggiori» mi urla, come al solito mio padre.
«Allora ti farò una tasca in più nel reggiseno. E una parte la metti lì, per sicurezza» aggiunge Ruža, mia nonna. Il minibus arriva. «Marina! Hai preso il passaporto?!» è la domanda che mi hanno rivolto di più i miei prima di lasciare casa. Sul portone mi salutano i miei genitori, mio fratello piccolo Rastko, la vicina di casa Gela, la nonna Ruža, mia cugina e il suo ragazzo. Il furgoncino non è pieno, ci sono soprattutto uomini d’affari che in quel periodo erano gli unici a viaggiare perché erano le sole persone che potevano ottenere il visto. Viaggiare equivaleva a un’operazione complessa: dogane, controlli, giustificazioni del proprio movimento. Discorsi preparati nel caso in cui ti fermassero. Avevano appena iniziato a vendere i cellulari ma io non ne avevo ancora uno. Arrivati a Budapest, l’uomo d’affari che mi è seduto accanto mi porge il suo telefono mobile dicendo: «Dai, chiama i tuoi genitori e di’ che sei arrivata. Sono appena diventato padre anch’io e ho una certa sensibilità ora».
Marina Lalović

La parola identità è spesso abusata per la sua vaghezza. Il libro di Marina Lalović ci aiuta a descrivere cosa non sia.
Gigi Riva
MARINA LALOVIĆ Giornalista serba nata a Belgrado, nell’ex Jugoslavia. Nel 2000 si trasferisce in Italia dove si laurea presso l’Università “La Sapienza” in Editoria e Giornalismo. Ha lavorato come redattrice al Magazine settimanale di Babel TV (canale 141 di Sky), dedicato alle questioni dell’immigrazione in Italia. Era corrispondente da Roma per quotidiano serbo “Politika” come anche per la radio-televisione serba, B92. Attualmente fa parte della squadra di Radio3Mondo, Radio Rai 3, dove conduce la rassegna della stampa estera e gli approfondimenti del programma. Nel 2014 ha vinto il Premio Marco Rossi, dedicato al racconto del mondo del lavoro in Italia, per il documentario Chi fa la fila al posto tuo? Il primo codista italiano. Per La cicala di Belgrado ha ricevuto il Premio Roberto Visintin 2022.