Laboratorio di scrittura creativa a cura di Mauro Daltin
5 Febbraio 2024Gli inediti di Ivo Andrić in libreria!
14 Febbraio 2024Viva la radio (Wilimowski)!
La radio compie cento anni, festeggiamo con Radio Wilimowski
Un romanzo di Miljenko Jergović nell'epoca della radio
La radio italiana compie 100 anni e per festeggiare raccontiamo anche noi una storia che con la radio ha molto a che fare: Radio Wilimowski, un romanzo di Miljenko Jergović, tradotto da Elisa Copetti e pubblicato da BEE nel 2018.
Quando nel giugno del 1938 un professore in pensione di Cracovia parte alla volta dell’Adriatico con il figlio gravemente malato, sa soltanto che deve raggiungere un misterioso hotel nell’entroterra di Crikvenica, per cercarvi la pace. Sono i giorni del Campionato mondiale di calcio. Tutti sono incollati alla radio: la voce commossa dello speaker racconta la magica partita in cui Ernest Wilimowski diventa leggenda. Mentre la Polonia lotta contro il Brasile, nell’animo del vecchio professore si romperà qualche cosa, e il figlio confesserà il suo sogno più bello. Jergović ci racconta l’attimo prima dell’Apocalisse, l’attesa dell’esplosione del mondo e il rapporto struggente fra un padre e un figlio sulle rive della costa adriatica.
Jergović racconta il mondo con quotidianità minute, oggetti, fenomeni. Tratteggia lo straniamento e il sospetto nei confronti del diverso attraverso una partita di calcio, all’inizio della Seconda guerra mondiale. Un clima e un’angoscia quanto mai attuali. Ma sognare il riscatto è possibile.
Cristina Battocletti
L'incipit di Radio Wilimowski
Era sabato, mattino presto, il 4 giugno 1938, quando sulla strada che sale verso il paese comparve un’insolita colonna.
Alla testa, sorreggendosi a un lungo bastone da pastore incurvato all’estremità, simile a un apostolo pazzo, procedeva un contadino alto, robusto, scuro in volto e baffuto, come fosse l’unico a conoscere la strada e tutti gli ostacoli che avrebbero potuto capitare alla colonna su quella via. Di seguito avanzava un uomo magro e minuto, in un abbigliamento bizzarro, evidentemente uno straniero, con un abito nero da cittadino e una bombetta, una foggia che da quelle parti si vedeva soltanto ai funerali, oppure nelle casse da morto aperte, dove giacevano i capi delle casate danarose. Di età indefinita, poteva avere quarantacinque anni, ma pure settanta, come a volte è difficile dire della gente di città. Camminava rapido e diritto, come si affrettano gli uomini minuti che con la rapidità compensano l’assenza di autorevolezza del fisico. A seguire veniva la cosa più insolita, senza la quale
non ci sarebbe stato neppure questo racconto: una portantina, simile a quella vista l’inverno precedente, al cinegiornale su Lawrence d’Arabia, trasportata da quattro uomini di Crikvenica, tre giovani e un vecchio, già quasi ottantenne, che qualcuno più tardi aveva riconosciuto.
Quel che stava sulla portantina non si vedeva perché era coperto di garza bianca. Si intuiva soltanto una figura in posizione seduta, dalla testa enorme e le spalle strette, che di tanto in tanto si stirava, e allora sembrava non avesse braccia e gambe, bensì zampe, sottili e fragili, come di un polpo disseccato.
Dietro alla portantina camminava una ragazza che non poteva avere più di venticinque anni e che a bassa voce, in una lingua straniera incomprensibile, conversava con la figura sotto la garza, mentre poi, alzando la voce, in tedesco, si accordava con il signore magro. Dietro di lei camminavano sei contadini, in fila, conosciuti, dei paesi circostanti oppure di Crikvenica, che trasportavano valigie piene di cose. Le valigie erano giganti e ingombranti, come se in esse si trasportasse l’archivio di una ditta importante che fosse andata in bancarotta
o fosse in fuga dalla guerra, o come se appartenessero a dei ricchi, che in treno non viaggiano mai soli ma hanno sempre accanto una folla di portantini e di aiutanti che si prenderanno la briga di far arrivare ogni cosa a destinazione, di disporre, sistemare e posizionare in modo che tutto sia ordinato come lo era a casa, così che al termine del viaggio non si noti affatto di aver viaggiato, e che ogni luogo al quale si arriva sembri proprio quello dal quale si è partiti. Forse anche per questo i signori più ricchi sembrano un po’ annoiarsi sempre e dovunque. In coda alla colonna, né vivo né morto, si trascinava un vecchio dalla barba bianca. Henrik. Di lui per primo si seppe il nome, perché l’uomo magro si voltò alcune volte e gli chiese, prima nella sua lingua incomprensibile, e poi anche in tedesco, probabilmente perché lo capissero anche i locali e non pensassero che stava nascondendo qualcosa: «Henrik, siete vivo?». Al che il vecchio annuiva e annuendo dava conferma, ripetendo nel mentre alcune incomprensibili parole, sempre le stesse…
L'autore
MILJENKO JERGOVIĆ (1966), romanziere, poeta, giornalista e sceneggiatore, nonché maestro del racconto breve, è senza dubbio uno dei maggiori talenti letterari della sua generazione. Nasce a Sarajevo, dove compie studi in filosofia e sociologia. Nel 1994, durante l’assedio di Sarajevo – magistralmente tratteggiato nella raccolta di racconti Le Marlboro di Sarajevo (premio Erich-Maria Remarque in Germania) – decide di lasciare la città natale per trasferirsi a Zagabria, dove tuttora vive e lavora. La guerra, l’assedio, la fuga, il doloroso disgregarsi di una comunità, la nostalgia, ma anche gli affreschi commoventi e fiabeschi della propria infanzia, l’intrecciarsi di destini familiari e collettivi, saranno temi ricorrenti anche nelle opere successive. I suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue e la lunga serie di premi e riconoscimenti letterari – tra cui, in Italia, il Grinzane Cavour nel 2003 per il libro Mama Leone e il premio Tomizza nel 2011 – lo consacra non solo come autore di fama internazionale ma anche come autentico erede dell’eccellente tradizione narrativa bosniaca e della migliore letteratura del Paese che una volta è stato la Jugoslavia. Per Bottega Errante ha pubblicato Radio Wilimowski (2018); Le marlboro di Sarajevo (2019) e Il padre (2020).