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12 Maggio 2023L'arte dell'essenziale di Paolo Costa
Un filosofo, le Dolomiti, il pensiero alla prova della diagonalità delle Terre Alte
In libreria L‘arte dell’essenziale un’escursione filosofica nelle Terre Alte di Paolo Costa camminatore, osservatore e filosofo che da diverso tempo indaga il rapporto tra montagna e spiritualità.Prendendo spunto dalla sua esperienza personale, maturata fin da bambino, sulle cime delle Dolomiti Paolo Costa ci guida in un’escursione che intreccia i sentieri di narrativa, antropologia, filosofia e attraversa prati, boschi, torrenti delle nostre montagne per mettere meglio a fuoco l’esperienza originaria dell’essere al monte.
Camminando in montagna può capitare a tutti di fermarsi e chiedersi che cosa ci sia poi di così speciale in quello che si sta facendo, che cosa ci spinga ad andare avanti malgrado la fatica, il sudore, il freddo o la pioggia. L’autore si domanda e ci domanda perché andare in montagna ci fa sentire più vivi? Che cosa c’è nel paesaggio che ci rende migliori? Come mai tra i monti l’esperienza del vuoto è tanto importante quanto il senso di pienezza? E perché non c’è nulla di male nel sentirsi inadeguati nelle Terre Alte?
L’arte dell’essenziale cerca distillare il senso autentico di queste domande ricordandoci che tra i monti quel poco di saggezza che è alla nostra portata si raggiunge metabolizzando stupore, tedio, curiosità per uno spicchio di mondo che va continuamente al di là delle aspettative e finisce per sfuggirci di mano anche quando ci era parso di aver accumulato l’ingegno e le energie sufficienti per inscatolarlo.
Pubblichiamo qui in anteprima un inedito di Paolo Costa che prosegue la meditazione sul senso e il valore dei paesaggi alpini sviluppata nel libro.
Sentieri interrotti
Hai voglia a ripeterti “vado avanti finché le gambe reggono” o “non appena comincia a imbrunire, faccio dietro-front”. Davanti ai tuoi occhi troneggia irresistibile quel confine, quel termine naturale che ti attrae come un magnete. La sommità è il compimento della giornata, il sipario, dopo il quale resterà solo l’eco degli applausi che ti rimbalzerà in testa nella discesa verso casa. “Ce l’hai fatta anche questa volta! Missione compiuta: puoi andare fiero di te stesso”.
C’è però il caso, interessante, delle vette senza cima. Noi che amiamo la montagna, di tanto in tanto incappiamo in questi rilievi tondeggianti, che pure si sono meritati un’ubicazione e un nome sulla cartina. Anche se li abbiamo raggiunti a fatica dopo avere macinato diverse centinaia di metri di dislivello, queste mete non ci gratificano con un traguardo visibile, un punto in cui possiamo tirare il fiato, guardarci attorno ed esclamare: “Eccomi qui, ci sono!”
Loro no, sfuggono.
Inizialmente ci sembra che la sommità sia appena sopra di noi e, sebbene la traccia del sentiero non sia nitida, ci muoviamo con passo fermo in quella direzione. Strada facendo, però, il dubbio si impossessa di noi. Il punto di arrivo, infatti, non è per nulla chiaro. Sembrava lì, ma forse è lo spiazzo più a sinistra ciò che stavamo cercando. Così cambiamo verso, inciampiamo in un ramo secco, ci scappa un’imprecazione, aggiriamo un avvallamento con l’erba troppo alta, ma ci rendiamo subito conto che qualcosa – forse gli alberi – impediranno all’orizzonte di assumere la forma che ci aspettavamo.
Non ce ne capacitiamo: se siamo su un monte, deve pur esserci un pinnacolo, un apice, una guglia, un cocuzzolo, un colmo, un vertice, una cuspide, un picco, uno spuntone, una sporgenza, una protuberanza, un bugno, una gobba, un bernoccolo…
A dire il vero, l’impedimento che frustra le nostre aspettative sembra più profondo di quello rappresentato da alcune caratteristiche fisiche isolabili: è qualcosa di morfologico che, a forza di insistere, assume dei tratti metafisici. Non mi spingerei fino a sostenere che il nostro stato d’animo assomigli a quello di Vladimiro e Estragone, avviliti dall’assenza immotivata di Godot, ma la confusione è significativa. Siamo giunti su una vetta senza cima e, mentre ce ne facciamo una ragione, un misto di stupore e stizza ci sopraffà allorché prendiamo coscienza del fatto che, non è la verticalità a racchiudere il senso profondo del nostro essere al monte.
Poi ci sono i sentieri.
Quando penso ai sentieri nel bosco me ne viene in mente uno in particolare. È un piccolo triòl a Zoldo che collega una mulattiera più larga che, dopo aver svoltato leggermente verso sinistra, si ricongiunge con il sentiero che porta al monte Punta – la via più frequentata da chi non si trova lì per caso – e un altro percorso, conosciuto solo dalla gente del posto, che conduce comunque in cima, ma da una via più breve e nascosta.
Il primo tratto, brevissimo, si inerpica nel bosco, ma dopo pochi metri la pendenza si addolcisce. Sulla sinistra si intravede la sagoma di un fienile, parzialmente oscurata da una coppia di aceri, che fa da cuspide a un ampio prato rettangolare. Un muretto a secco costeggia per un centinaio di metri il viottolo la cui traccia è ben visibile anche nel fulgore dell’estate perché la vegetazione consiste per lo più di felci, i cui steli ondeggiano elastici su un terreno umido. Nel punto in cui termina il muretto la strada piega delicatamente verso destra, anche se l’angolo prodotto dalla fine della costruzione umana è come se interrompesse di colpo il flusso del tempo e dispiegasse di fronte al viandante un ventaglio di possibilità: proseguire dritto per i prati, infilarsi obliquamente nel bosco, cedere alla tentazione di dirigersi verso il tabià.
Lo sguardo, tuttavia, è calamitato dallo spiazzo verde glorificato dai lampi di luce che filtrano tra i rami degli abeti non altissimi che lo circondano. Ormai lì è l’acqua a farla da padrona e la traccia del sentiero in quel tratto si perde nel pantano, ma durante la mia infanzia il rivolo finiva in un festìl dove un tempo si abbeveravano le vacche e ci si poteva comodamente dissetare. Se si presta attenzione, il tronco di larice scavato è ancora visibile, rovesciato, appena sotto la strada, mentre la natura fa il suo corso e livella quello che gli umani hanno provato a organizzare secondo i propri gusti e interessi.
In quel punto domina sempre il silenzio traboccante di suoni del bosco. L’invito a togliersi lo zaino e sostare per un tempo indeterminato è irresistibile. Viene così spontaneo scegliersi un cantuccio, pochi metri sopra la strada, sedersi con circospezione, guardare in una direzione imprecisata e accantonare i propri piani tirando un sospiro di sollievo.
Là tutto è vicino e tutto è infinitamente lontano. Mentre si prende posto accanto agli alberi, dalla mente si staccano una a una le scorie della vita quotidiana e si può attendere con calma che un pensiero, un ricordo, un sentimento, faccia capolino non si sa bene da dove. Quel momento di attesa, però, può anche dilatarsi per un tempo imprecisato e lo spazio non geometrico abitualmente occupato dalle idee, dagli stati d’animo o dalla memoria essere saturato dalla percezione dell’ambiente circostante. Diventare anche solo per qualche secondo occhiorecchiolfatto è un’esperienza difficile da dimenticare e può servire da utile termine di paragone nelle nostre ricerche sgraziate di una vita piena, che il più delle volte ci conducono dove non avevamo in realtà nessuna voglia di andare.
È in quell’istante che possiamo allungare con cautela le gambe, prima una poi l’altra, appoggiare i gomiti sul terreno, creando con i raggi del sole l’angolo più confortevole per il nostro corpo, e prendere senza sforzo le sembianze anonime di un perdigiorno – la creatura notoriamente più adatta alla felicità.
Non credo sia un caso che stati di grazia così essenziali si materializzino più facilmente in un punto eccentrico di quell’intrico di sentieri ininterrotti che la montagna ci porge con maliziosa generosità proprio mentre ci illude e distrae con le sue vette.
L'autore Paolo Costa
PAOLO COSTA (Milano 1966), filosofo e saggista, è ricercatore della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Oltre ad avere curato, fra l’altro, l’edizione italiana di opere di Charles Darwin, Hannah Arendt, Charles Taylor, Martha Nussbaum, è l’autore di Un’idea di umanità (EDB 2007), La ragione e i suoi eccessi (Feltrinelli 2014) e La città post-secolare (Queriniana 2019; traduzione inglese 2022). Da alcuni anni si occupa dei significati filosofici della montagna organizzando eventi e pubblicazioni che indagano il valore spirituale che molte persone attribuiscono oggi alla loro passione per le Terre alte.
L'arte dell'essenziale: recensioni
Da Petrarca a Nietzsche, non si contano i letterati e pensatori che hanno amato salire in vet, trovando nella dimensione della cima, dell’ascesa e della fatica a ciò conseguente, oltre alla bellezza contemplate da lassù, un correlative oggettivo alla propria ricercar di verità e di senso.
Lorenzo Fazzini, Avvenire
Un racconto da leggere e rileggere, che dà risposte e apre continue e nuove domande sui significati più enigmatici della condizione umana.
Federica Moreschi, Limina
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Tra montagna e filosofia. Un’escursione sulle Terre Alte con Paolo Costa, di
- Ma se si medita tra le vette le scissioni moderne vanno gambe all’aria, Lorenzo Fazzini, Avvenire
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