Scrivere sul serio – Laboratorio pratico
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18 Aprile 2023Hotel Universal
Un hotel nel cuore di Bucarest, l’epopea di una famiglia, una ricetta tramandata di madre in figlia:
Dalla Romania, finalmente in traduzione italiana, Hotel Universal romanzo d’esordio di Simona Sora, tradotto da Sara Salone, nominato per il premio Festival du premier roman a Chambéry-Savoiec e vincitore del premio dell’Accademia romena “Ion Creangă” per la prosa.
Al centro della storia la vita di un hotel nel cuore di Bucarest, luogo ideale per raccontare personaggi e vicende fuori dall’ordinario.
Ombelico di un mondo d’altri tempi, l’albergo diventa un luogo di ritrovo per viaggiatori e mercanti dall’Oriente evolvendosi negli anni: da quartier generale della Securitate a bordello proletario, da rifugio per studenti bohémien dopo la rivoluzione del 1989 a residenza per gli studenti. Luogo misterioso dagli innumerevoli angoli nascosti e dalle cantine labirintiche, è abitato da personaggi bizzarri – il professore di lingue antiche Pavel Dreptu, l’aspirante suicida Mohicano, Aliona la chiromante – e da Maia, giovane inquilina, che intesse una storia lunga 150 anni tramandata per linea matriarcale assieme alla ricetta segreta della marmellata alle rose.
Decine di storie si stratificano l’una sull’altra in una costruzione ipnotica che ondeggia tra realismo magico, memoria e premonizione, fino a quando nel 1993 l’hotel al n. 12 di stradă Gabroveni diviene scenario di un omicidio…
Col profumo inebriante di petali di rosa canditi, il profumo dei segreti, l’Hotel Universal magnifica i destini di una stirpe di donne forti, guaritrici ciascuna a suo modo, un po’ streghe, eroine “meravigliose”, o meglio – come direbbe una delle protagoniste – “sensibili al meraviglioso”.
L’estratto
Un uomo che ti ama ti insegna a morire. Non ti mostra la sua paura, non ti illude con le parole. Ti mostra – attraverso strade che percorre senza di te – come vedere la morte prima che essa veda te. Maria piccola sapeva come distinguere gli uomini. Leggeva nel loro sguardo, sulla pelle del viso, sulle labbra e nella voce se conoscevano qualcosa di quell’amore di cui le aveva parlato Maria grande durante tutta la sua infanzia e la sua adolescenza. Si chiamavano entrambe Maria, ma siccome Maria piccola non sapeva pronunciare la r, col tempo la chiamarono tutti così come lei si chiamava da sola: Maia, con una i allungata.
Forma di difesa all’inizio, la frase era finita col tempo per recitarsi da sé, nella sua testa: Un uomo che ti ama ti insegna a morire. Gli uomini invece volevano insegnare a Maia a vivere, a piangere, a ridere, ad accoglierli in lei tremante di desiderio, ad attenderli poi felice, come se non avesse sentito la loro paura e il loro orgoglio, come se non avesse udito la loro voce gutturale, come se non avesse conosciuto la loro vigliaccheria e la loro indifferenza.
Maia avrebbe voluto pregare come Maria le aveva insegnato, ancora prima di imparare a parlare. Stava sullo sgabello verde con lo schienale nella stanza di Maria, ma le veniva in mente solo una frase che aveva incollato – durante la sua giovinezza già trascorsa – al proprio respiro: Un uomo che ti ama ti insegna a morire. A morire, però, era stata Maria, la nonna che l’aveva cresciuta e che, con il pugno di ferro, aveva fatto in modo che non cambiasse. Maria era stata l’azimut che Maia non era mai riuscita a superare e ora, nella semioscurità della stanza, piena di sue immagini, Maia riusciva solo a ricordare l’incanto nel ricevere il potere di distinguere gli uomini.
Alla veglia funebre c’erano state solo donne, le tre figlie di Maria, le tre nipoti e le sue due pronipoti, sorvegliate da una terza che non aveva avuto il permesso di nascere e che se ne stava – solo per quell’occasione – appollaiata sull’armadio a tre ante dove Maria aveva conservato, nell’arco di cinquant’anni, gli abiti con cui l’avevano vestita per l’ultima volta. Gli uomini erano partiti tutti, era andata così, alcuni erano in viaggio, altri nelle vicinanze, per le incombenze della sepoltura. I più, tuttavia, erano morti negli ultimi anni, come d’accordo. Tanto che a tavola erano rimaste solo loro nove (anzi dieci), dopo aver sfamato due o tre turni di amiche, vicine, vaghe conoscenze del quartiere, tutte donne. Tre di loro si chiamavano Teodora: la figlia maggiore di Maria, la primogenita di questa e la bambina di Maia; la seconda figlia di Maria di nome faceva Elena, era alta, con il naso greco; la figlia Zoica non l’aveva ereditato, ma era la più dotata a vedere Maria ancora seduta a capotavola, a ridere, perché Maria rideva moltissimo e in modo contagioso.
L’autrice
SIMONA SORA (1967) Pubblicista, negli ultimi vent’anni si è occupata di critica e analisi letteraria. Ha tradotto diverse opere dallo spagnolo e insegnato Letteratura romena e Teoria editoriale all’Università di Bucarest. Lavora come redattrice presso la casa editrice dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest. Già nota e pluripremiata per i suoi saggi letterari, esordisce nella narrativa con il romanzo Hotel Universal, nominato libro dell’anno 2012 e insignito del Premio dell’Accademia romena “Ion Creangă” per la prosa. Già tradotto in croato e in francese, il romanzo viene presentato da Mircea Cărtărescu alla Fiera di Lipsia 2017 come una delle migliori opere della letteratura romena contemporanea.