Il Teatro e la sua città
17 Novembre 2022Scrivere sul serio – Laboratorio pratico
31 Gennaio 2023Giornata della memoria
con Emicrania e Capodanno con Balzac
Per la Giornata della memoria abbiamo scelto le parole di due nostri autori che hanno scritto della Shoha: Gyurkovics Tamás e Wolfgang Kohlhaase.
Tamás Gyurkovics ha dedicato il romanzo “” alla storia di Ernő Spiegel, che fu nel campo di Auschwitz lo Zvillingsvater, il “custode dei gemelli” di Mengele, e che dopo la liberazione si ricostruì una vita in Israele affrontando anche il processo ad Eichmann. Wolfgang Kohlhaase dedicò il racconto “Invenzione di una nuova lingua”, inserito nella raccolta “”, alla vita di un giovane internato in un lager che per salvarsi si improvvisa insegnante di persiano per un kapò. Difficile non sarà inventare le parole, quanto ricordarle…
Capodanno con Balzac – Wolfgang Kohlhaase
CAPODANNO CON BALZAC di Wolfgang Kohlhaase, tradotto in italiano da Giuliano Geri, è una raccolta che racchiude 13 short stories avvolgenti come il fuoco in una notte d’inverno, che si muovono con passo deciso andando a scavare dentro il lato più profondo e nascosto dell’animo umano. Si procede, storia dopo storia, dentro alle immagini di una Berlino che Kohlhaase conosce a menadito e di cui riesce a restituire il sound, l’odore e le inflessioni. Dentro questi racconti, che letti uno dopo l’altro appaiono come un romanzo, troviamo la DDR, il nazismo, la capitolazione della Germania, il dopoguerra, ma tutto procede attraverso il racconto di vite minime, in una sorta di estetica del quotidiano in equilibrio fra microstoria e macrostoria. A seguire vi proponiamo un estratto dal racconto “Invenzione di una lingua”, dal quale il regista Vadim Pereman ha tratto il film “Lezioni di persiano” (2020).
L’estratto
«Sono stato in Persia, prima della guerra» dice.
«Ragazzo, lo sai che ti succede, vero, se mi racconti frottole?».
Dal suo sguardo traspare un tale spavento, che il kapò è certo che Straat sappia cosa lo aspetta.
«Avanti, come si dice buongiorno?».
«Dalam» risponde Straat.
«E merda?».
Straat sembra pensarci troppo a lungo, il kapò si fa subito impaziente.
«Ci sarà pure una parola per merda».
«Tupa» dice Straat.
«Tupa» ripete il kapò, commosso. «Adesso torni a sbucciare, se ti preme la tua vita».
Per il momento può bastare. Ma quello scambio di battute ha notevoli conseguenze. Per esempio che Battenbach, il kapò della cucina, intercetta, non appena ricompare dalla lunga pausa pranzo, il caporalmaggiore Roeder.
Gli spiega che da tempo ha bisogno di un uomo in più nella sua squadra di lavoro, che non ha mai trovato quello giusto, ma che adesso ce n’è uno che lo ha colpito per le sue particolari abilità. A quelle parole il caporalmaggiore annuisce. Non ha nulla in contrario, nemmeno a visionare quell’uomo così dotato. Battenbach dietro di sé, raggiunge a passo marziale i pelapatate e prende a scrutare quell’olandese mezzo morto di fame, in passato studente di Fisica per sei semestri, ma a Roeder questo non interessa. Ciò che gli interessa ce lo ha già davanti agli occhi, vede infatti un uomo che, nonostante si dia disperatamente da fare, non ha la più pallida idea di come si sbuccino le patate. Ma la cosa non ha importanza, dato che due volte alla settimana il caporalmaggiore si porta via un pezzo di salame, la domenica un arrosto intero e sempre, quando passa di lì, una zolletta di margarina. Il tutto rimediato da Battenbach. Annuisce dunque una seconda volta, se ne torna nel suo casottino e scrive nome e numero su un foglietto. Che più tardi, nella stessa giornata, finisce all’Arbeitsstatistik, l’ufficio che tiene il conto degli effettivi nel campo. Da lì all’Arbeitsdienstführer, il sottufficiale delle SS responsabile della formazione delle squadre di lavoro e del loro rendimento. E il mattino seguente, che si leva umido sui detenuti radunati all’appello, Straat è l’unico tra i dieci pelapatate a far ritorno in cucina, dove ad accoglierlo amichevolmente, pacca sulla spalla, c’è Battenbach.
Perché Straat è ormai l’uomo di Battenbach. Non è più destinato alla cenere ossea, ora gli toccano zuppa e pane, perché deve rimettersi in sesto. Per una testa simile sarebbe un peccato, si dice Battenbach strofinandosi le mani, giacché è vero che lo hanno rinchiuso – non per motivi politici, bensì per lenocinio – ma non possono impedirgli adesso di imparare il persiano. Nessuno lo sa, nemmeno Roeder, che i primi giorni si aggira di soppiatto intorno a Straat cercando di darsi una spiegazione, nemmeno lui può sapere che a unire il sazio kapò e l’olandese affamato è una lingua particolare. E che quella lingua non esista affatto, non può saperlo neppure lo stesso Battenbach. Solo Straat lo sa. È soltanto lui a stabilirne regole e lessico. Di quante parole avrà bisogno? Per quanti giorni?
Emicrania di Tamás Gyurkovics
EMICRANIA. Storia di un senso di colpa di Tamás Gyurkovics, tradotto in italiano per BEE da Andrea Rényi è un romanzo sull’Olocausto e sul senso di colpa di chi riuscì a salvarsi dai lager. L’autore ricostruisce con un’attenta ricerca la vicenda umana di Ernő Spiegel, qui Spielmann, giovane ungherese ce fu Zwillingsvater nel campo di Auschwitz-Birkenau, colui che badava ai gemelli che Mengele aveva selezionato per i suoi esperimenti.
Quanto il campo fu liberato nel 1945 Spielman promise ai gemelli di riportarli a casa e così fece. Si salvò riparando in Israele ma il senso di colpa lo perseguitò per tutta la vita con forti e ricorrenti emicranie. Nel 1961 comincia a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann: Ernő deve affrontare il suo trauma e uscire allo scoperto con se stesso, la sua famiglia, la comunità.
L’estratto
«Che cos’è successo a tuo fratello?».
«Conosci la prassi» risponde mite l’altra. «Ci hanno divisi, lui con gli uomini, io con le donne». Per un istante Magda esce sul terrazzo per schiacciare la cicca nel coperchio di un barattolo da conserva usato come posacenere, poi torna a sedersi al tavolino da fumo, sul rivestimento del quale scorre una crepa con delle bolle. «Dopodiché ci siamo incontrati una sola volta. Una sola volta, che io non ricordo… Me lo ha raccontato mio fratello. Non ci siamo ritrovati neppure nella confusione della liberazione. Da nessuna parte. Nemmeno a Cracovia. Ci siamo rivisti solo nel giugno del Quarantacinque a casa, a Munkács».
«Quindi non sai nulla?» domanda Nitza con un pizzico di ostilità nella voce. Magda stringe le labbra, assorta nei pensieri striscia il dito sulla screpolatura del piano laccato del tavolo, come se sfiorandola potesse rinsaldarsi.
«Mengele» dice infine.
«Chi?» domanda Nitza Spielmann.
«Mengele».
«Chi è?».
«Non lo sai?».
«No».
«Il dottore» risponde Magda. «Non ne hai mai sentito parlare?».
«Avrei dovuto?».
La donna si stringe nelle spalle e lancia uno sguardo attonito alla moglie di suo fratello. Poi trova un altro approccio al problema e dice: «Gli esperimenti! Ti dicono qualcosa?».
Nitza tace e scuote la testa. «Un giorno tutto il mondo imparerà il suo nome». Magda alza l’indice e Nitza non sa se la sua voce sia strozzata per l’odio o per la devozione.«Era una brava persona?».
Magda scoppia in una risata tanto isterica che a Nitza Spielmann si chiude lo stomaco.
«Dio mio, cara cognata, un giorno ti vergognerai di questa domanda».
E Magda ha ragione, perché quando il mondo avrà conosciuto il nome del dottore, ogni volta che Nitza ripenserà a quella conversazione arrossirà di vergogna.
«Che cosa gli ha fatto?».
«Non solo a lui» Magda Zelmonovics china la testa di lato.
«Ai gemelli. Aveva la mania dei gemelli. Zwillinge! Zwillinge!».
«Anche a te?».
«Sono gemella» dice flemmatica e un sorriso dolente le guizza sul viso. Quindi si alza e si gira di fronte alla parete sulla quale è appeso l’orologio che esalta lo Stato ebraico. Parla fino alla fine dando le spalle a sua cognata, come se si confessasse davanti a un giudice invisibile.
Ascoltandola, Nitza Spielmann ha la sensazione di soffocare. Vorrebbe scappare, uscire in strada o almeno nel corridoio, invece rimarrà ancora mezz’ora, e poi converserà un po’ meccanicamente ma in modo appropriato, come se parlando di quisquilie potesse mettere a tacere l’eco delle parole di Magda. Accennano all’aumento dei prezzi, ai nuovi olìm, alla politica. Fumando un paio di Dubek, Magda prende le parti di Ben Gurion e brontola a lungo e con piacere del comportamento di colui che, fra loro, chiamano scherzosamente il Comandante. Nitza risponde alle domande e quando serve ne fa anche lei. Ma con il pensiero è altrove. I pensieri vorticano intorno al fantasma dal nome sconosciuto, che è stato rievocato da sua cognata con alcune parole pronunciate per metà e altre taciute, e che da quel momento in poi volteggerà sempre intorno alla sua famiglia come un paziente avvoltoio.