1992-2022 // Trent’anni dall’assedio di Sarajevo
5 Aprile 2022BEE al Salone del Libro di Torino 2022
15 Maggio 2022Esce oggi in libreria di Tamás Gyurkovics nella traduzione dall’ungherese di Andrea Rényi.
Questo è un romanzo sull’Olocausto e sul senso di colpa di chi riuscì a salvarsi dai lager. L’autore ricostruisce con un’attenta ricerca la vicenda umana di Ernő Spiegel, qui Spielmann, giovane ungherese ce fu Zwillingsvater nel campo di Auschwitz-Birkenau, colui che badava ai gemelli che Mengele aveva selezionato per i suoi esperimenti. Quanto il campo fu liberato nel 1945 Spielman promise ai gemelli di riportarli a casa e così fece. Si salvò riparando in Israele ma il senso di colpa lo perseguitò per tutta la vita con forti e ricorrenti emicranie. Quando nel 1961 comincia a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, l’uomo deve affrontare il suo trauma e uscire allo scoperto con se stesso, la sua famiglia, la comunità.
La posta in gioco del romanzo Emicrania è la riaffermazione dell’autonomia etica personale contro l’assurdità della storia. I suoi personaggi sono tratteggiati con precisione, il suo linguaggio e il suo ritmo ispirano il lettore a leggerlo quasi in una sola seduta, aspettando con ansia i colpi di scena.
Judit Szarka per REVIZOR
Con l’esordio in traduzione di Tamás Gyurkovics (1974) apprezzatissimo autore in patria, vede la luce il secondo libro della collana RADAR, inaugurata a fine 2021 con CAPODANNO CON BALZAC di Wolfgang Kohlhaase e con l’intenzione di esplorare la letteratura contemporanea dell’Europa balcanica ed orientale.
Una collana che ci porterà presto in area moldava e ucraina per raccontare storie e territori curiosi, compositi, molteplici.
Buona lettura!
L’incipit
«Silenzio, basta con Auschwitz». Nitza Spielmann scaccia i figli. «Sono le cinque meno un quarto» aggiunge «vostro padre potrebbe arrivare da un momento all’altro». La ragazza annuisce obbediente, si liscia la gonna con il palmo della mano. Saluta la signora Fischel, la vicina di casa, e va nella stanza grande. Nei giorni feriali Judit ha il privilegio di poter fare i compiti
alla scrivania di suo padre, un mobile rivestito di panno verde che ricorda il vecchio mondo, ma che non è stato fabbricato di là – un oggetto del genere sarebbe stato troppo ingombrante da portare in nave – bensì è opera di un falegname locale che i genitori avevano incontrato ancora a Be’er Ya’akov. Alcune tempeste di vento rendevano spiacevole l’inverno del Quarantanove, e alla fine anche gli Spielmann furono fatti traslocare, dalla loro tenda precaria, in una delle case di pietra del campo profughi, dove incontrarono il falegname. Allora la famiglia era composta soltanto da Zvi, Nitza e Judit, il bambino è nato qui, in via Bizaron, dove i vicini sono gente come loro: cechi, polacchi e ungheresi; superstiti come loro. A un cenno della madre scatta in piedi anche Israel per affrettarsi dietro a sua sorella; lui non prende ancora parte alle conversazioni ma ascolta con attenzione le storie degli adulti. A causa della visita della signora Fischel, Judit è rimasta un pochino indietro con i compiti, ma nemmeno adesso è assorta nello studio del suo libro. Getta frequenti occhiate alla porta dove sta per comparire suo padre, che si toglierà il cappello, appenderà alla gruccia la giacca di stoffa pesante che insiste a indossare pure in quella calura, si laverà le mani, e infine darà
un bacio a ciascuno dei suoi.
“Il mio papà elegante” pensa la ragazza, sebbene sia consapevole dell’imprecisione di quella definizione. La sua è qualcosa di più, e anche qualcosa di meno, dell’eleganza, è piuttosto una compostezza generale, una peculiarità presente in ogni momento della sua vita: lui è la compostezza e la compostezza è lui. Da adulta, quando si imbatterà in quelle piccole regole invisibili che fanno funzionare la vita quotidiana, a Judit verrà sempre in mente suo padre.